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Lorenzo racconta in un video lo schianto dell’aereo. E quel gesto inatteso

“Ma quale rimborso dello Stato? Lasci perdere colonello. La mia azienda non fa i soldi con le disgrazie degli altri”. Era il 1982 e Lorenzo Travaglini a quel tempo aveva quarantatré anni. Era un “uomo di bosco”, come si definisce ancora oggi. Soprattutto era ed è ancora un “hombre vertical”, come dicono i sudamericani per definire un uomo tutto di un pezzo. Quarant’anni fa se ne rese conto anche l’ufficiale dello Stato Maggiore dell’Aereonautica inviato in Toscana da Roma, che cercava di spiegare all’uomo di bosco la prassi in uso in caso di incidente aereo. E in quel torrido luglio del 1982 un vero e proprio disastro aereo era accaduto a Torsoli: nome del borgo di poche case, che si trova appena sopra Lucolena. Luogo in cui la famiglia Travaglini (Lorenzo, il più piccolo, insieme ai fratelli Loris e Luciano) all’epoca aveva appena avviato una piccola azienda agricola e forestale.

Era accaduto che nel tardo pomeriggio del 10 luglio 1982 un Hercules G222 Mass, appartenente alla 46esima Aereo Brigata di Pisa, si era schiantato nel bosco, a qualche centinaio di metri di distanza della casa dei Travaglini, mentre tentava di spengere – prima dell’arrivo del buio – un incendio scoppiato tra il Valdarno e il Monte San Michele. “Noi eravamo a lavorare nel campo, più in basso, a cinquecento metri da casa. Lo vedemmo arrivare, pareva volare sulle nostre teste. Ricordo di aver pensato: se quell’aereo continua così finisce nella montagna. Ma il mio ragionamento fu interrotto da un boato e da una enorme fiammata. Sul momento pensai che fosse caduto sulla nostra casa, dove avevamo lasciato tutti i nostri familiari. Con il cuore in gola presi il trattore per risalire più velocemente verso casa, quando arrivai più in alto mi resi conto che l’aereo era cauto solo qualche centinaio di metri più in alto rispetto alle nostre abitazioni”.

Mancavano una ventina di minuti alle 19, quel lontano 10 luglio di quarant’anni fa, quando la vita di quattro aviatori s’interruppe sul monte San Michele, mentre la vita di Lorenzo Travaglini e dei suoi familiari, proprio da quel giorno cambiò per sempre. “Cercammo di portare soccorso, sanza sapere a chi e come. Nell’urto il velivolo si era spaccato in due, la carlinga era stata spinta molto più avanti rispetto al punto di impatto della coda. Mentre mi stavo avvicinando ai resti del velivolo fui fermato da un’esplosione, seppi dopo che stavano scoppiando le bombole di ossigeno in dotazione all’aereo militare. Allora feci un giro più largo, e appena intravidi la carlinga, capii subito che non c’era più niente da fare per gli aviatori”.

Per venti giorni la famiglia Travaglini divenne il punto di riferimento per i militari e le autorità intervenute sul luogo dell’incidente: una parte della casa divenne la base delle operazioni, a tutti gli operatori fu garantito il vitto e alloggio per non interrompere l’intervento. Daniele, il ragazzo di casa Travaglini, che all’epoca aveva 13 anni ma già sapeva guidare alla perfezione il trattore, aveva attrezzato il suo mezzo agricolo per portare sul luogo dell’incidente i militari e le autorità. Una sorta di ‘navetta’ improvvisata che sapeva evitare le insidie del bosco, soprattutto al calar del sole. E i mezzi agricoli dell’azienda Travaglini lavorarono giorno e notte per recuperare i resti dei piloti e dell’aereo. Venti giorni a fare su e giù per il monte San Michele”.

Alla fine dallo Stato Maggiore volevano saldare il conto, e non capivano il rifiuto di Travaglini: “L’abbiamo fatto per spirito umanitario, non per soldi” replicava Lorenzo. Alla fine dovette intervenire don Quintilio Billi, allora parroco di Torsoli: “Non insista colonnello, la prego – spiegò il sacerdote – conosco bene Lorenzo e suoi principi, è cresciuto con me, qui in parrocchia. E se dice che non vuole i soldi, ha le sue buone convinzioni per farlo”.

E da quel giorno nacque un rapporto particolare tra l’Aeronautica e la famiglia Travaglini, anche perché, subito dopo, Lorenzo decise di avviare, ancora una volta a proprie spese, la costruzione di un monumento proprio laddove erano stati riuniti i resti mortali del tenente colonnello Domenico Fanton, del capitano Maurizio Motroni, del maresciallo Furio Colaiacomo e del sergente maggiore Alessandro Cosimi. Monumento che poi fu ampliato con il contributo della Regione Toscana e del Comune di Greve.

E proprio lì, di fronte a quel monumento che ricorda gli aviatori morti per fermare le fiamme, ogni mattina del 10 luglio si celebra una toccante cerimonia, che quest’anno avrà un significato particolare nella ricorrenza dei quarant’anni dal disastro aereo. E come succede ogni anno, i militari e le autorità poi si fermeranno a pranzo nella casa dei Travaglini: “Le nostre porte, esattamente come 40 anni, fa sono aperte. Allora mettemmo a disposizione gratuitamente un locale che ospitò con vitto e alloggio le tante persone che giunsero sul luogo dell’incidente. Oggi come allora ospitiamo tutti, soprattutto le vedove e i colleghi dei caduti, per ricordare insieme gli aviatori della 46^ Aero Brigata che hanno sacrificato la loro vita per aiutare altre persone che neanche conoscevano”.

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